L'Isis non è sconfitto, restano 230mila 'soldati' in guerra
La silente resistenza
del Califfato islamico
GUIDO OLIMPIO
Il massacro dell’11 settembre 2001 non è stato l’inizio della sfida terroristica, i qaedisti hanno iniziato a colpire fin dal 1993. E non hanno mai smesso impegnando l’Occidente così come altre realtà in una lotta infinita. Gli Usa hanno messo in piedi una coalizione per dare battaglia, Mosca ha fatto lo stesso nelle aree di sua competenza, la Cina si è accodata. Dietro una lunga fila di governi democratici e regimi, ognuno con le sue risposte. Parziali, quasi sempre militari o di polizia. Che sono certamente necessarie, però non sufficienti.
Uno studio diffuso dal centro Csis di Washington ha fornito numeri non proprio incoraggianti. A partire da quel drammatico giorno di settembre gli estremisti hanno continuato a crescere: oggi - secondo le stime degli esperti - sono attivi circa 230 mila militanti, una presenza sparsa in 70 paesi. Uomini affiliati a Osama, allo Stato Islamico, a gruppi che si collocano nel mezzo innalzando la bandiera della guerra santa. Cifre impressionanti visto lo sforzo messo in atto per 17 lunghi anni ai quattro angoli della terra.
L’Isis, dopo aver dovuto abbandonare le sue roccaforti, ha comunque mantenuto l’azione nel nord est della Siria, dove conduce la tattica preferita, quella della guerriglia. In altre aree geografiche - come l’Iraq - si affida alle cellule, agli attentati, agli omicidi mirati. È una strategia di lungo termine che prevede prima la "resistenza", quindi - al momento opportuno - il rilancio. Il Califfato, ridotto nelle sue dimensioni, ripropone lo schema: vuole sfruttare gli errori dei suoi avversari, è convinto che alla fine mancanza di soluzioni vere porteranno strati di popolazione e reclute dalla sua parte.
Non basta falciare le unità oltranziste, non è sufficiente eliminare quadri e capi. I raid, le incursioni, le attività di intelligence sono fondamentali, chiudono un "lato", però devono essere accompagnate da iniziative più strettamente politiche/economiche. Se non risolvi le tensioni sociali, se non elimini il settarismo, se non crei condizioni di vita normali è arduo contrastare gli amanti della Jihad. I quali hanno la grande capacità di adattarsi, sono pazienti, mettono a punto tecniche per continuare a far male. In certi quadranti si comportano da miliziani veri, bene addestrati, padroni delle campagne, abili nel costruire quinte colonne. In altri luoghi si affidano a simpatizzanti, ad attacchi rustici con pugnali e le vetture ariete. I servizi di sicurezza mettono le mani avanti, temono sorprese, dall’uso di droni a veicoli (o persino battelli) radiocomandati. Mezzi testati in Medio Oriente.
Va male anche in Afghanistan. Anzi, se si esclude qualche parentesi, siamo stati sempre costretti a inseguire. Il rapporto sostiene che vi sono almeno 35-40 mila insorti vicini ai talebani, poi un nucleo di irriducibili di al Qaeda - 200-300 -, infine le bande minoritarie dello Stato Islamico. In questi mesi la minaccia si è concretizzata con una serie impressionante di attentati mentre si esplorano le possibili vie negoziali. Da seguire la Libia, dove l’Isis non è stato mai eliminato completamente. Vertice settentrionale di un fenomeno sempre diffuso anche a sud, nel Sahel, in Nigeria, per finire nel Corno d’Africa dove si intrecciano anime diverse del "radicalismo".
Oggi sappiamo molto sui terroristi, ne abbiamo arrestati a centinaia, abbiamo ostacolato i loro movimenti, costruito giganteschi archivi. Successi importanti - sarebbe ingiusto non ricordarli - ma non sufficienti per chiudere la partita.
02.12.2018