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LE FIRME DEL CAFFÈ
Lorenzo Cremonesi
È un Paese in forte crisi quello che ha accolto il Papa
Quei pochi cristiani in Iraq
tra le macerie di sé stessi
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Chi è
Nato a Milano nel 1957, come giornalista segue, da oltre 25 anni, le vicende mediorientali dal Libano all'Afghanistan, dal Pakistan all'Iraq.
È un Iraq in crisi profonda quello che accoglie la storica visita papale in questi giorni. Non a caso sia il cardinale Luis Raphael Sako a Baghdad che l’arcivescovo Bashar Matti Warda di Erbil, dovendo caratterizzare l’evento, ci hanno prima di tutto parlato delle enormi difficoltà in cui versa il Paese. "Nonostante gli sforzi del governo del premier Mustafa al Kadhimi, prevalgono ancora settarismo e tribalismo", ha insistito Sako. "Manca l’idea di cittadinanza. Dobbiamo riscrivere dall’inizio la costituzione. Noi cristiani non possiamo essere semplicemente tollerati in quanto minoranza dalla maggioranza musulmana. Il nostro status non può dipendere dai capricci di un governo. I nostri diritti vanno garantiti in quanto individui. Ogni cittadino deve essere uguale di fronte alla legge", ha ribadito Warda.
Isis è stato battuto dopo la battaglia di Mosul nell’estate del 2017. Però, i motivi di scontro tra maggioranza sciita e agguerrita comunità sunnita restano del tutto aperti. La loro soluzione passa anche per Riad e Teheran. Ovvio che in Iraq si guardi con grande apprensione alle scelte della nuova amministrazione Biden nei confronti dell’Iran. Se dovesse riprendere il dialogo per riformulare un accordo sul nucleare iraniano molto facilmente anche l’Iraq beneficerebbe della nuova politica americana in Medio Oriente. Ma ciò rende la situazione instabile. Gli iracheni sanno bene di non essere padroni del loro destino.
I problemi sono tanto gravi che persino il nord curdo oggi è in difficoltà. Nata dalla guerra del 1991 e sviluppata dopo l’invasione americana del 2003, la regione autonoma curda è adesso più divisa e frazionata che mai. Qui sono concentrati i cristiani rimasti, si trovano i resti della comunità yazida massacrata dal Califfato nel 2014-15. Pensavano di avere trovato un rifugio sicuro, ma le tensioni tra il clan Barzani a Erbil e quello Talabani a Sulimanye, aggravate dalle ingerenze turche da una parte e iraniane dall’altra, rischiano addirittura di condurre alla guerra civile inter-curda e alla divisione in due della regione.
Il Papa incontra una comunità di fedeli che in meno di un ventennio è ridotta all’ombra di sé stessa. C’erano oltre un milione 600mila cristiani prima dell’invasione americana. Oggi sono meno di 250.000. Le Chiese irachene incarnano così il dramma del collasso cristiano nelle regioni che videro per prime la predicazione degli Apostoli. "Voi occidentali avete scelto di aiutarci nel modo sbagliato. Invece di garantire la politica dei visti di emigrazione facile per i vostri Paesi, avreste dovuto cercare di farci restare a casa nostra", accusa ancora Warda. Qui sanno bene che magari i cristiani fuggiti in Giordania, Turchia e Libano un giorno potrebbero anche rientrare. Ma la maggioranza si trovano ormai tra Stati Uniti, Canada, Australia ed Europa: nessuno di loro tornerà in Medio Oriente. Del resto, è sufficiente un breve tour tra i quartieri cristiani distribuiti a Baghdad, Mosul, nella piana di Niniveh ed Erbil per capire i loro motivi. Trionfano macerie, rovine di basiliche risalenti al quinto secolo dopo Cristo. A Mosul il Papa vedrà i resti delle roccaforti di Isis, gli anziani gli racconteranno del loro terrore quando i jihadisti minacciavano di decapitarli in piazza ed esigevano le tasse per i monoteisti non-musulmani come ai tempi dei califfati medioevali. Chi può garantire che tutto ciò non possa ripetersi? "Il Papa aiuterà certamente ad attirare i riflettori dell’opinione pubblica internazionale sul nostro dramma. Magari arriveranno nuovi finanziamenti. Ma dopo quei riflettori si spegneranno e noi rimarremo di nuovo soli", ci dicevano qualche giorno fa una decina di anziani tornati alle loro cose nel villaggio di Karamles, una ventina di chilometri a nord di Mosul.
Il momento più carico di storia è a Ur dei caldei, non lontano da Nassirya, la patria di Abramo. La metafora delle radici comuni ebraico-cristiane- musulmane. Ma l’incontro più importante dal punto di vista politico è quello con il Grande Ayatollah Ali Al Sistani. Ha più di 90 anni, ma resta il personaggio più influente dell’era post-Saddam. Fu lui nel 2004 a spingere la comunità sciita (il 65 per cento degli iracheni) a partecipare alle elezioni. Poi fu ancora lui a predicare la necessità della coesistenza tra sciiti e sunniti, sebbene il terrorismo qaedista fosse allo zenith. Lui stesso fu più volte nel mirino degli estremisti. Nel 2014 si adoperò per mobilitare le milizie sciite inviate a bloccare l’avanzata di Isis da Mosul verso Baghdad. Col Papa parlano della necessità della cooperazione tra le fedi per favorire la pace. L’Iraq ne ha un estremo bisogno.
Isis è stato battuto dopo la battaglia di Mosul nell’estate del 2017. Però, i motivi di scontro tra maggioranza sciita e agguerrita comunità sunnita restano del tutto aperti. La loro soluzione passa anche per Riad e Teheran. Ovvio che in Iraq si guardi con grande apprensione alle scelte della nuova amministrazione Biden nei confronti dell’Iran. Se dovesse riprendere il dialogo per riformulare un accordo sul nucleare iraniano molto facilmente anche l’Iraq beneficerebbe della nuova politica americana in Medio Oriente. Ma ciò rende la situazione instabile. Gli iracheni sanno bene di non essere padroni del loro destino.
I problemi sono tanto gravi che persino il nord curdo oggi è in difficoltà. Nata dalla guerra del 1991 e sviluppata dopo l’invasione americana del 2003, la regione autonoma curda è adesso più divisa e frazionata che mai. Qui sono concentrati i cristiani rimasti, si trovano i resti della comunità yazida massacrata dal Califfato nel 2014-15. Pensavano di avere trovato un rifugio sicuro, ma le tensioni tra il clan Barzani a Erbil e quello Talabani a Sulimanye, aggravate dalle ingerenze turche da una parte e iraniane dall’altra, rischiano addirittura di condurre alla guerra civile inter-curda e alla divisione in due della regione.
Il Papa incontra una comunità di fedeli che in meno di un ventennio è ridotta all’ombra di sé stessa. C’erano oltre un milione 600mila cristiani prima dell’invasione americana. Oggi sono meno di 250.000. Le Chiese irachene incarnano così il dramma del collasso cristiano nelle regioni che videro per prime la predicazione degli Apostoli. "Voi occidentali avete scelto di aiutarci nel modo sbagliato. Invece di garantire la politica dei visti di emigrazione facile per i vostri Paesi, avreste dovuto cercare di farci restare a casa nostra", accusa ancora Warda. Qui sanno bene che magari i cristiani fuggiti in Giordania, Turchia e Libano un giorno potrebbero anche rientrare. Ma la maggioranza si trovano ormai tra Stati Uniti, Canada, Australia ed Europa: nessuno di loro tornerà in Medio Oriente. Del resto, è sufficiente un breve tour tra i quartieri cristiani distribuiti a Baghdad, Mosul, nella piana di Niniveh ed Erbil per capire i loro motivi. Trionfano macerie, rovine di basiliche risalenti al quinto secolo dopo Cristo. A Mosul il Papa vedrà i resti delle roccaforti di Isis, gli anziani gli racconteranno del loro terrore quando i jihadisti minacciavano di decapitarli in piazza ed esigevano le tasse per i monoteisti non-musulmani come ai tempi dei califfati medioevali. Chi può garantire che tutto ciò non possa ripetersi? "Il Papa aiuterà certamente ad attirare i riflettori dell’opinione pubblica internazionale sul nostro dramma. Magari arriveranno nuovi finanziamenti. Ma dopo quei riflettori si spegneranno e noi rimarremo di nuovo soli", ci dicevano qualche giorno fa una decina di anziani tornati alle loro cose nel villaggio di Karamles, una ventina di chilometri a nord di Mosul.
Il momento più carico di storia è a Ur dei caldei, non lontano da Nassirya, la patria di Abramo. La metafora delle radici comuni ebraico-cristiane- musulmane. Ma l’incontro più importante dal punto di vista politico è quello con il Grande Ayatollah Ali Al Sistani. Ha più di 90 anni, ma resta il personaggio più influente dell’era post-Saddam. Fu lui nel 2004 a spingere la comunità sciita (il 65 per cento degli iracheni) a partecipare alle elezioni. Poi fu ancora lui a predicare la necessità della coesistenza tra sciiti e sunniti, sebbene il terrorismo qaedista fosse allo zenith. Lui stesso fu più volte nel mirino degli estremisti. Nel 2014 si adoperò per mobilitare le milizie sciite inviate a bloccare l’avanzata di Isis da Mosul verso Baghdad. Col Papa parlano della necessità della cooperazione tra le fedi per favorire la pace. L’Iraq ne ha un estremo bisogno.
06-03-2021 21:30
Londra,
La polveriera
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